Gli equilibrismi di una media potenza

La politica estera dell’Italia di Giolitti.

L’età giolittiana fu un periodo di grandissimi cambiamenti per l’Italia, sia all’interno sia all’esterno. Giovanni Giolitti, figura dai fortissimi chiaroscuri, divenne il dominus della scena politica di quel periodo storico dopo la mancata svolta reazionaria di fine secolo. Giolitti e Zanardelli aprirono il ventesimo secolo fermando i rigurgiti anti Parlamentari di Di Rudinì e Pelloux, vogliosi di rimettere sotto controllo un Parlamento sempre più indipendente dal Re. A questa situazione delicata si era sommato l’omicidio di Umberto I a Monza per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, “suicidato” pochi mesi dopo in carcere. L’uomo di Dronero diede una svolta. Egli era infatti un esponente dell’area riformista del movimento liberale, capace di controllare il Parlamento con metodi quasi dittatoriali ma fu anche il primo, in Italia, a trattare gli scioperi operai nelle fabbriche del nord con il dialogo. Tuttavia Giolitti non abbandonò mai le pratiche di sottogoverno e clientelismo che caratterizzarono le politiche del periodo liberale nel Meridione d’Italia. Sfruttando senza scrupoli la figura dei semi onnipotenti prefetti delle province, Giolitti tenne sempre sotto controllo le circoscrizioni elettorali. Fedelissimo del Re, il cinque volte presidente del Consiglio impresse un cambio di passo all’Italia. L’interesse per Giolitti si concentra soprattutto sulla sua politica interna ma anche all’estero l’azione sua e quella dei suoi collaboratori è molto interessante. L’Italia di Giolitti ebbe una proiezione nel mondo libera e indipendente. Mai l’Italia avrebbe avuto la stessa autonomia strategica. Le direttive della politica estera di Giolitti e dei vari ministri degli Esteri di quegli anni furono l’irredentismo e il colonialismo ma perseguiti con razionalità e senza pulsioni nazionaliste.

Il riavvicinamento con la Francia e il rapporto con la Triplice Alleanza

All’alba dell’età giolittiana, nel 1902, il governo Zanardelli aveva firmato il rinnovo della Triplice Alleanza in un momento complicato per i rapporti tra Impero austro-ungarico, Germania e Italia. I sentimenti antiaustriaci nel Belpaese erano in aumento dall’inizio del ‘900 a causa della questione irrisolta di Trento e Trieste. L’irredentismo italiano non si era placato ma trovava nuova linfa grazie al nascente nazionalismo di Corradini, Scipio Sighele e Vilfredo Pareto. Inoltre l’avvicinamento tra Francia e Russia aveva scatenato una competizione tra Parigi e Berlino. Rivalità che aveva al centro l’Italia. Quest’ultima aveva oramai abbandonato il triplicismo e il filo-germanismo esasperato che aveva caratterizzato l’epoca crispina. I tempi erano maturi per un riavvicinamento italo-francese. A guidare per primo la riconciliazione tra Parigi e Roma fu Luigi Luzzatti. Egli affrontò la delicata operazione impostandola economicamente. Luzzatti trovò una sponda favorevole nel governo di Pierre Waldeck Rousseau che era a capo di un ministero sostenuto da radicali, socialisti e repubblicani. Il primo ministro francese era andato controcorrente e aveva smesso di sostenere indiscriminatamente il papa, impegnato in uno scontro decennale contro lo Stato italiano. L’appoggio transalpino alla Chiesa cattolica era uno dei nodi cruciali che impediva lo sviluppo di rapporti cordiali tra Roma e Parigi. Waldeck Rousseau eliminò questa pregiudiziale e accelerò il riavvicinamento. Lo scambio di note tra il ministro degli Esteri Visconti Venosta e l’ambasciatore francese a Roma Camille Barrere fecero il resto. All’Italia si riconosceva il diritto su Tripoli in cambio della fine delle aspirazioni di Roma sul Marocco. Era l’archiviazione dello schiaffo di Tunisi del 1882. Giulio Prinetti, successore di Visconti Venosta agli Esteri, perfezionò l’accordo tra Parigi e Roma sotto impulso del duo Zanardelli-Giolitti. Prinetti riuscì anche, grazie a un intenso scambio di note, a raggiungere un punto d’incontro con la Gran Bretagna. Il successore di Visconti Venosta però non riuscì a sistemare la questione balcanica che sarebbe esplose da lì a poco. Queste furono le premesse della politica estera giolittiana. Giolitti aveva dalla sua parte Vittorio Emanuele III che era favorevole a una svolta filo francese. Ciò irritava notevolmente gli alleati tedeschi. L’erede di Umberto I era molto diverso dal predecessore e, tra le sue prime iniziative in politica estera, andò insieme a Prinetti in Russia per incontrare lo zar Nicola II. Il triplicismo italiano era entrato in una fase di crollo irreversibile. Giolitti voleva una politica estera equilibrata e in grado di tutelare l’iniziativa autonoma dell’Italia. Il presidente del Consiglio intendeva dare un’accelerata a quei “giri di valzer” di cui il cancelliere tedesco Von Bulow accusava l’Italia. Il principio guida di Giolitti era l’autonomia strategica dell’Italia.

Giolitti, Tittoni e San Giuliano

Uno dei più mirabili esempi dei “giri di valzer” nostrani furono gli accordi segreti con Russia e Impero austro-ungarico dopo che quest’ultimo aveva annesso la Bosnia. Un territorio su cui aveva esteso un protettorato nel 1878. L’azione austroungarica fece scalpore e irritò notevolmente Roma e Mosca. Giolitti e il suo ministro degli Esteri Tommaso Tittoni risposero all’inglobamento bosniaco con un doppio accordo segreto, maturato nel 1909. Il primo patto fu con la Russia e venne stipulato da Vittorio Emanuele III e Tittoni tra il 23 e il 25 ottobre in occasione della visita dello zar Nicola II e del ministro degli Esteri russo Izvolskij a Racconigi., un viaggio molto contestato dai socialisti che espressero con forza i loro sentimenti antizaristi. Il secondo accordo venne firmato con l’impero austroungarico nello stesso periodo. L’obiettivo era mantenere lo status quo nei Balcani, messo in pericolo dall’annessione della Bosnia. Ma il grande manovratore della politica estera italiana fu Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano. La coppia Giolitti e San Giuliano orchestrarono l’impresa di Libia dopo aver ottenuto il benestare delle altre potenze europee grazie a un abile gioco diplomatico. La conquista della Libia fu dettata da ragione geopolitiche ed economiche, cercando di tenere a bada le esagerate pulsioni nazionaliste. Giolitti e San Giuliano dovettero anche gestire la reazione negativa di Vienna alla conquista italiana del Dodecaneso, portata avanti per accelerare il crollo degli Ottomani in Libia. San Giuliano fece pressioni sulla Germania per calmare l’impero austroungarico, timoroso che l’operazione militare italiana nell’Egeo facesse esplodere gli appetiti dei giovani Stati balcanici nei confronti del grande malato d’Europa. Cosa che poi effettivamente avvenne. Giolitti e il suo ministro degli Esteri annunciarono la conquista della Libia prima ancora che venisse ultimata per evitare il pantano politico e militare. In concomitanza del processo di pace, di cui venne incaricato il presidente della società commerciale d’Oriente e imprenditore Giuseppe Volpi insieme al suo collaboratore Bernardino Nogara, San Giuliano rinnovò anche la Triplice Alleanza. Fu una decisione condivisa con Giolitti dal momento che metteva nero su bianco i diritti italiani sulla Libia. Ma gli sforzi di San Giuliano si concentrarono soprattutto sull’equilibrio balcanico. Il ministro degli Esteri di Giolitti fu molto favorevole alla creazione di uno Stato albanese indipendente e libero dalle influenze straniere. Per questa ragione San Giuliano cercò di tenere sotto controllo la Serbia e le sue preteste post Prima Guerra Balcanica e la Grecia dopo la Seconda Guerra Balcanica. La caduta di Giolitti e la salita di Salandra misero fine alla politica estera giolittiana e l’Italia cominciò la sua discesa sul piano inclinato che portò alla Prima Guerra Mondiale.

Conclusione

La politica estera di Giolitti e dei suoi ministri degli Esteri aveva come obiettivo l’ottenimento del massimo grado di autonomia strategica. Per questa ragione si sfruttarono le rivalità di potenze che entravano nella fase più agguerrita dell’imperialismo. Giolitti, durante la guerra di Libia, riuscì a tenere sotto controllo i primi nazionalisti che volevano una gestione più decisa della campagna militare. Il nativo di Mondovì invece, usando le parole di Gentile, aveva il piglio del burocrate anche in ambito bellico e ciò non poteva piacere a chi vedeva nell’Italia la potenza proletaria pronta a sovvertire l’ordine delle Nazioni imperialiste che la opprimevano.

Giolitti, pur essendo ricordato soprattutto per le sue opere in materia di politica interna, lavorò con intelligenza all’Estero. Il contesto non era dei migliori visto che la competizione tra le potenze aveva raggiunto l’apice. La Prima Guerra Mondiale fu l’elemento di rottura che pose bruscamente fine all’età giolittiana. Il nazionalismo aveva preso il sopravvento e Giolitti, con il suo pragmatismo razionale, non era uomo da sentimenti forti. Egli ebbe il demerito di non comprendere che la guerra di Libia aveva esacerbato i sentimenti nazionalisti. Fu proprio Giolitti a mettere fine alla sua stessa politica estera, decisa in accordo con Tittoni prima e San Giuliano poi.

Pubblicato da unaltropuntodivista

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