Il complesso militare-industriale italiano, parte 1

Si parla molto spesso del cosiddetto “industrial-military complex” in riferimento agli Stati Uniti e alla commistione tra le aziende che vendono armi, con i loro interessi commerciali, l’esercito e altre attività economiche. Eisenhower nel 1961 mise in guardia dall’eccessiva espansione di questo tipo di industria che avrebbe potuto influenzare pesantemente la politica statunitense e la stessa società civile. L’avvertimento di Ike è stato palesemente ignorato (ne avevamo parlato qua https://unaltropuntodivista.altervista.org/il-complesso-militare-industriale-statunitense/ ). Ma questo complesso militare-industriale, la sua pericolosità e le sue dimensione ipertrofiche non sono esclusive di Washington, nonostante sia un fatto che negli USA si raggiungano i massimi livelli. Infatti anche in Italia la vendita delle armi occupa una porzione importante delle vendite di molte aziende, spesso partecipate statali. Esse fanno da traino a un settore talmente in salute che non sembra conoscere crisi. La loro influenza passa spesso sottotraccia ma a volte emerge con chiarezza così come è accaduto il 7 luglio di questo anno.

Il caso tra Italia, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti

Proprio il 7 luglio infatti la Reuters ha affermato che l’Italia ha abrogato quasi totalmente il divieto di vendita delle armi a Emirati Arabi Uniti e ad Arabia Saudita. La decisione fu presa nel gennaio del 2019 dopo che emersero le nefandezze compiute dai due Stati del Golfo insieme a una coalizione di Paesi Arabi contro la minoranza Houthi in Yemen. Il divieto però non fu rispettato totalmente. Infatti nello stesso 2019 Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti erano all’undicesimo e al dodicesimo posto nella classifica dei principali compratori di armi italiane con 105 milioni di euro di armi vendute a Riyad e 89 ad Abu Dhabi. Le licenze distribuite a queste due Nazioni hanno toccato i 200 milioni mentre le consegne i 190 milioni. Adesso anche queste proibizioni sono state tolte. L’Italia tornerà quindi a vendere armi a Nazioni che le useranno in spregio ai diritti umani. La vittoria dell’apparato industriale-militare italiano è stata completa. Torneranno le commesse miliardarie per le armi di aziende di Stato italiane e probabilmente torneranno anche i soldati nella base emiratina di Minhad. A dettare la linea politica sono state, pur senza essersi manifestate chiaramente, le aziende di armi.

Le cifre dell’apparato industriale-militare italiano

L’export italiano di armi nel 2020 ha raggiunto il valore di 4.6 miliardi di euro. Una cifra astronomica che è in calo rispetto al 2019 ma comunque altissima e consolida la posizione dell’Italia all’interno delle dieci Nazioni che vendono di più in questo sanguinoso settore. Si consideri inoltre che la piccola flessione è giustificata dalla pandemia che ha bloccato parzialmente anche la vendita di armamenti vari. Prendendo i dati del 2019, più realistici, si nota che il valore totale di questo settore ammontava a 5.17 miliardi. Anche in quell’anno si riscontrava una diminuzione nelle vendite del 1.38% ma i dati svelano tutta un’altra realtà se vengono paragonati con quelli del 2014. Nel 2019 infatti le esportazioni sono aumentate dell’80% rispetto a quell’anno. Una crescita vertiginosa che dimostra come il complesso militare-industriale italiano sia in ascesa e molto in salute.

Totale, in milioni di dollari, delle armi vendute dall’Italia.
I Paesi che vendono più armi nel mondo e il loro peso sul totale.

Sono infatti ben 354 le aziende che hanno la licenza per vendere armi. Le prime due società leader del settore sono Leonardo che possiede il 31.58% del totale delle licenze, e Fincantieri con il 25.27%. La particolarità di questi due giganti dell’export di armi è che sono delle partecipate statali. Leonardo ha come principale azionista il Ministero dell’Economia e delle Finanze mentre la maggioranza di Fincantieri è posseduta da Fintecna, parte del gruppo “Cassa depositi e prestiti” controllata per l’83% dal ministero dell’Economia. La commistione tra apparato industriale politica è quindi ben testimoniate da queste cifre. Ma è proprio lo Stato, con l’appoggio decisivo dei privati, a sostenere il complesso militare-industriale. Tale appoggio è stato testimoniato anche dalle parole scritte dalla Commissione difesa del Senato che, si ricordi, comprende tutti i partiti. In una relazione di qualche mese fa infatti si legge che uno dei settori che devono essere sostenuti dal Piano Nazionale di ripresa e resilienza sia proprio quello dell’export delle armi. La domanda che ci si deve porre è la seguente: perché farlo? La risposta è che motivi non ce ne sono.

Le dieci aziende che vendono più armi al mondo, escluse quelle cinesi.

Nel 2020 l’Italia ha speso 23.9 miliardi di budget per la Difesa, +7.5% rispetto al 2019 e toccando l’1.6% del PIL rispetto all’1.4% dell’anno prima. Ma un altro ragionamento interessante emerge se si prende in considerazione a chi vengono vendute queste armi. Due terzi delle Nazioni che comprano “made in Italy” sono Paesi non-EU e non-NATO. Approfondendo ancora si nota che il 39% delle nostre armi approda in Medio Oriente e Africa. Sono, e questa è un’ovvietà, le due zone del mondo più falcidiate dalle guerre e da conflitti di vario genere. Infatti al primo posto c’è l’Egitto. Il valore dell’export di armi con Il Cairo tocca i 991.2 milioni di euro. In questa cifra astronomica sono comprese navi FREMM, elicotteri, caccia e anche satelliti d’osservazioni. Negli altri nove posti troviamo Turkmenistan, Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Sud Corea, Australia, Brasile, Qatar e Algeria.

 Milioni di armi vendute al Paese
Egitto991
Turkmenistan446
Gran Bretagna419
Stati Uniti306
Le prime quattro Nazioni a cui vendiamo armi.

Il rapporto tra ENI e Marina militare

Il 6 luglio il Capo di Stato Maggiore della Marina militare Giuseppe Gavo Dragone ha firmato un protocollo d’intesa con l’amministratore delegato dell’ENI Claudio Descalzi. L’obiettivo dell’accordo è quello di implementare le capacità di scambiarsi informazioni tra amministrazioni dello Stato. Nel comunicato rilasciato successivamente si legge che “Il protocollo è finalizzato a consolidare le sinergie già in atto tra le Parti per garantire da un lato la “sicurezza marittima”, intesa nel senso più ampio, e dall’altro lato, a realizzare un’ampia collaborazione a supporto del potenziamento della sicurezza energetica a protezione degli interessi nazionali in campo marittimo. In particolare, la Marina militare, fornirà supporto ad Eni tramite il concorso all’attività di vigilanza nello specifico settore della subacquea e dell’idrografia, sull’impiego ottimale delle risorse della piattaforma continentale. Il protocollo contribuirà anche a rendere l’ambiente delle piattaforme di estrazione degli idrocarburi offshore, più familiare per la Marina militare, consolidando, nel contempo, le sinergie già in atto tra le due Parti.”  Una comunanza di vedute totale. Sostanzialmente la flotta italiana è messa a disposizione dell’Ente Nazionale Idrocarburi, anch’esso parte del gruppo Cassa depositi e prestiti. È l’ENI a dettare la linea come viene dimostrato dalle missioni della Marina nel golfo di Guinea da dove l’Italia compra il 18% del petrolio. Nel 2020 la missione è stata approvata con un costo di 10 milioni per quattro mesi. Le navi italiane sono ben presenti ovunque ci siano gli interessi petroliferi ed energetici dell’ENI: Nigeria, dove l’Italia investe 1.3 miliardi di euro, e Angola in primis. D’altronde il Belpaese non può permettersi di perdere i lucrosi affari che derivano dai 9.8 miliardi di euro immessi in Africa nel solo 2019. Nell’ambito delle relazioni ENI-Marina militare la linea di demarcazione tra interessi economici e militari è talmente sfumata da essere inesistente. Ma una domanda sorge spontanea dopo aver visto questo legame strettissimo: fino a che punto è legittimo far influenzare la politica estera italiana da un’azienda petrolifera?

L’incontro tra ENI e Marina militare.

Conclusione

L’ambito delle relazioni internazionali è per sua stessa natura guidato dal cinismo. Infatti valgono poco le dichiarazioni umanitarie così ben presenti nei discorsi di politici e membri delle forze armate. I rapporti tra gli Stati sono ancora guidati dalla legge del più forte. Tuttavia a imporre l’agenda da seguire in politica estera non sono più gli apparati istituzionali come accadeva durante l’ottocento. A dettare la linea infatti sono le grandi attività industriali coinvolte nel commercio di armi, intimamente connesse alle strutture militari dello Stato. In sostanza anche in Italia il complesso militare-industriale ha un ruolo decisivo e la sua influenza è testimoniata, oltre che dalle cifre astronomiche che smuove, dal rapporto simbiotico dell’ENI con la Marina militare. Risultano inoltre sminuiti nel loro significato reale i continui appelli dell’Occidente al rispetto dei diritti umani. L’Italia è pienamente coinvolta in questo discorso dal momento che vende armi a Nazioni che calpestano tali diritti quotidianamente. Per di più, con la visione dei dati relativi a dove sono vendute le armi, ci si pone anche la questione dell’effettivo impegno dell’Occidente, e del Belpaese soprattutto, per la risoluzione dei vari conflitti che strangolano Africa e Medio Oriente. Per fermare queste guerre infinite un primo passo efficace sarebbe lo stop dei rifornimenti di armi nelle due macro aree sopra citate. Ma il complesso militare-industriale lo permetterebbe? Ovviamente no dato che, come si è visto, il 39% dell’export italiano di armi finisce nel Continente Nero e in Medio Oriente. Repetita iuvant: il cinismo dilaga e non se ne può fare a meno.

Pubblicato da unaltropuntodivista

Sito di informazione. Attualità, storia e politica raccontate in maniera diversa.